Questa volta è diverso. Negli ultimi giorni si moltiplicano le comparazioni con gli eventi del 2008 e del 2011. Le conseguenze di allora sui mercati finanziari e sull’economia reale vengono spesso accostate con quanto sta accadendo in queste settimane o che potrebbe avverarsi nelle prossime. E si è riaperto anche il dibattito in merito alla necessità degli interventi delle Banche Centrali, la loro tipologia ed intensità. Eppure, in realtà la situazione è sostanzialmente diversa. L’elemento che accomuna quanto accaduto nella passata crisi con quanto sta avvenendo oggi è il forte rallentamento del commercio internazionale. Ma le cause di questi rallentamenti sono sostanzialmente diverse. Nel 2008, la crisi è stata di natura finanziaria-economica. Lo scoppio della bolla sui derivati ha creato non solo una perdita di valore di molte asset class, ma anche enormi buchi nei bilanci delle banche, accompagnati a crescenti assorbimenti patrimoniali. Nei Paesi che avevano recepito le indicazioni di Basilea, questo ha significato necessità di recuperare patrimonializzazione, anche sul lato delle ponderazioni del rischio legato al credito (RWA, come noto, è il denominatore di tutti i ratios di patrimonializzazione legato ai rischi di primo pilastro). Tutto ciò si è tradotto in un forte taglio agli accordati creditizi per i clienti meno meritevoli, ma anche nel non rinnovo nelle linee di credito legate all’import ed export. Stessa cosa è accaduta per le banche Statunitensi, ma non per colpa di Basilea, visto che gli USA non hanno mai aderito agli indirizzi della BSI, ma per problemi di leverage e del rispetto dei nuovi limiti imposti dal Governo e FED a seguito della crisi. La conseguenza è stato il crollo del commercio internazionale, che se vogliamo è stato l’anello di congiunzione tra la crisi finanziaria e quella reale. La cura, lo sappiamo molto bene, è stata fatta da forti stimoli monetari, accompagnati ove possibili da interventi di politica fiscale. Ma oggi quale è la situazione? Il crollo del commercio internazionale rimane l’anello che sta portando il mondo verso una forte contrazione economica, ma tutto ciò, chiaramente, non è il risultato di una crisi finanziaria. Le conseguenze dei contagi da Covid 19 hanno portato alla paralisi delle economie locali in diversi Paesi, con la conseguenza del crollo dei rapporti di interscambio, complice la ben nota integrazione cross-border delle supply chain nei più svariati settori. Gli effetti sono che dopo 5 anni si rivedono interviste del Dr Doom (Nourel Roubini) che aveva previsto la crisi del 2008. Ma sbagliato le successive due, non lo dimentichiamo. Riappaiono articoli e dichiarazioni in merito alla forma delle possibili riprese economiche (U shaped, L, W, V ecc, ecc). Insomma, un bel dejà-vu.
Però, al di là di tutto, la riflessione che volevo fare è la seguente. Negli anni 2009-2011 abbiamo sottostimato l’impatto che la crisi di allora avrebbe prodotto sul sistema bancario italiano. Ne parlo diffusamente nel libro Io sono last mile: come essere consulente bancario e finanziario nell’era del fintech, ed oggi è ben chiaro quanto siamo stati miopi nel non adottare immediate misure articolate a sostegno anche del settore bancario in un Paese come il nostro dove il grado di ‘bancarizzazione’ è talmente elevato. Oggi il rischio che si ripropone potrebbe essere lo stesso. Poiché i canali di trasmissione del rallentamento economico sono diversi, la politica monetaria potrà far ben poco, e non solo perché ha esaurito quasi tutte le armi convenzionali e non a disposizione. Qui non si tratta di restituire fiducia e stabilità ad un sistema bancario, ma supportare l’economia reale. Il problema è chiaramente più di politica fiscale che monetaria. Sicuramente si cercherà di prendere tutte le misure possibili di politica fiscale e di sicuro si avrà tutta la flessibilità di bilancio da parte della Commissione Europea. Ma non commettiamo lo stesso errore fatto nel 2008. Dobbiamo agire proattivamente anche nei confronti del sistema bancario. Anche perché nel frattempo, proprio a causa della crisi del 2008, la vigilanza è cambiata sostanzialmente. Non è più solo un problema di Basilea, oggi il problema per un Paese molto centrato sul credito alle PMI come il nostro si chiama DoD, definition of default. Cioè la gestione del credito deteriorato. Sicuramente l’impatto del Covid 19 si protarrà per un po’ di mesi, quantomeno fino a quando non si troverà un vaccino, tenuto conto che nel frattempo si avrà una ripresa delle attività in alcuni Paesi, ma sarà graduale, mentre in altri siamo ancora all’inizio. Questo significa che molte PMI e attività retail soffriranno, e non solo nelle aree dei focolai. Ma le regole attuali sulle misure di forbearance potrebbero penalizzare gli Istituti di credito che operano a sostegno dei clienti affidati in momentanea difficoltà tramite moratorie, ristrutturazioni ed altro. Senza parlare del peggioramento del merito creditizio di alcune linee, che seppur non deteriorate potrebbe portare ad una allocazione a stage 2 secondo l’IFRS9. In più c’è l’introduzione del nuovo DoD, che per le banche più piccole è dal primo gennaio 2021, proprio quelle banche che magari a livello locale possono essere più impattate dagli eventi recenti.
Se nell’ambito di uno stance di politica monetaria tradizionale i tassi di interesse sono stati gli strumenti indiretti per perseguire i mandati delle banche centrali, oggi l’azione sulla normativa bancaria può essere considerata lo strumento indiretto per perseguire politiche fiscali in maniera più efficiente ed efficace.
Pertanto, più che parlare di riduzioni di tassi già negativi, o di aumentare acquisti di titoli sui mercati, sarebbe opportuno che i nostri policymaker facessero pressioni sulle autorità di vigilanza e sul trilogo affinchè si introducessero delle misure temporanee che sterilizzino in parte gli effetti della normativa sugli NPL e dell’attività di staging prevista dall’IFRS9. Ad esempio, si potrebbero esentare le attribuzioni di misure di forbearance se riconducibili strettamente a difficoltà finanziarie temporanee legate al Covid 19, procrastinare di 6 mesi l’introduzione del nuovo DoD per le banche less signficant, esentare dal mettere in stage 2 nei prossimi bilanci le posizioni che hanno avuto un notevole peggioramento del merito creditizio per fatti riconducibili a tale evento.
Sarebbe altresì necessario che l’autorità di vigilanza richieda una analisi di impatto di tali eventi, soprattutto per le banche localmente più coinvolte, in modo poi da prendere decisioni opportune ed in linea con quanto suggerito nelle righe precedenti.
Tutti gli attori, compresi i rappresentanti di categoria, devono agire proattivamente per gestire questa situazione e per non commettere lo stesso errore fatto nel 2008 e nel 2010, di chiudere il cancello quando i buoi sono già scappati da un bel po’. Non possiamo neanche sempre sperare che arrivi il solito cavaliere bianco a togliere le castagne dal fuoco. L’attuale situazione richiede una convergenza di interessi che emerga dal basso e non dall’alto, dove tutti devono fare la loro parte.
I tempi sono maturi per un cambio di passo ed un salto di qualità. Maggiore azione di lobbying, maggiori analisi e dati a disposizione che evidenzino le necessità. Insomma, ‘alzare istituzionalmente la voce’ ex ante, con dati oggettivi alla mano. Non ex post, con la mano protesa in cerca di elemosina.