La sfida del Fintech per le banche italiane

Ho voluto iniziare questo ‘viaggio’ nel Fintech partendo da una posizione comoda e confortevole: il sistema bancario tradizionale in Italia. Perché? Diciamo che il ‘trigger’ è stato il recente paper della BIS (Banks for Interrnational Settlements) dal titolo ‘Sound Practices: implications of fintech developments for banks and bank supervisors’. Sono onesto. Appena ho letto il titolo ho toccato ferro. Non perché non creda nelle buone intenzioni e nelle capacità di analisi degli esperti presso la BIS, ma perché credo un po’ meno nel contributo che possa essere dato alla causa dall’organizzazione in questione. Se si porrà come player in grado di fare da rule maker come è successo con i rischi disciplinati nel framework normativo di Basilea, allora good luck everybody!!! Però una cosa è certa. Il ‘fenomeno Fintech’ è oramai sotto la lente dei diversi think-tanks e superivsor internazionali. Il documento del Financial Stability Board di Maggio 2017, l’analisi sul crowdfunding avviata dalla Commissione Europea nel 2014 e seguita dalla bozza del gennaio 2017 del Parlamento europeo sul “Fintech: l’impatto della tecnologia sul futuro del settore finanziario”, il joint commitee costituito dai tre board di vigilanza europea che ha emanato nel dicembre 2016 il rapporto sull’automazione dei servizi finanziari e la consultazione avviata nel dicembre 2017 dalla BCE sulle linee guida per la valutazione delle domande di autorizzazione all’esercizio di attività bancaria di soggetti con Fintech business model ne sono una prova.

Poi però mi cade l’occhio sull’indagine conoscitiva sul Fintech in Italia pubblicata nel Dicembre  2017 da Banca d’Italia e la domanda che mi pongo è? Stai a vedere che è la prima volta che il superivsor anticipa il settore regolamentato. L’antidoping che anticipa il dopato. Perché? Perché se qualcuno era ancora alla ricerca della prova provata di come parte del sistema bancario italiano sia ‘well behind the curve’ basta leggere cosa scrive Banca d’Italia come cappello alla indagine svolta che ha visto coinvolti 93 intermediari, tra cui le 13 banche significative (SI) e 53 gruppi bancari less significant. Un estratto del cappello della suddetta indagine recita testualmente: “Nonostante la dichiarata attenzione e il numero non trascurabile di iniziative censite (283), la limitata portata degli investimenti programmati (135 milioni di euro) testimonia la rilevanza ancora comparativamente modesta del settore in Italia.

I maggiori vincoli allo sviluppo di Fintech, secondo le istituzioni intervistate, sono riconducibili alla significativa onerosità degli investimenti a cui corrispondono profitti attesi ritenuti al momento incerti in ragione sia del potenziale sviluppo del mercato, la cui domanda non è considerata ancora sufficientemente matura, sia dell’incertezza sull’evoluzione futura del quadro regolamentare.”

Sarebbe troppo semplicistico risolvere il tutto ad una generalizzata e pura miopia del management bancario italiano o dei vari consigli di amministrazione. L’industria bancaria tradizionale sta cercando da tempo di uscire da una ‘empasse’ reddituale che non è comunque possibile ricondurre meramente a fattori esogeni quali i cambiamenti del mercato o gli impatti normativi direttamente o indirettamente riconducibili alla famigerata unione bancaria europea. Sicuramente il fattore endogeno, direi quasi autoreferenziale, che ha bloccato la crescita di una parte consistente del settore, soprattutto quello riconducibile alle banche di medio/piccola dimensione, è legato a doppio filo alla incapacità da un lato di cogliere il cambiamento, ma dall’altro lato anche nello sperare che alla fine nulla cambi nella sostanza. Per dirla un po’ alla Chamfort, piuttosto che aggiustare le vele al nuovo vento, si è fino all’ultimo sperato che il vento tornasse a soffiare nella stessa direzione di sempre. Mi meraviglia di più il riferimento di Banca d’Italia al fatto che gli operatori bancari in senso lato ritengano che la domanda non sia ancora sufficientemente matura. E’qui che io vedo il ‘well behind the curve’. I fenomeni di cambiamento della domanda di qualsiasi bene o servizio negli ultimi anni hanno visto delle accelerazioni che non sono più coerenti con un approccio passivo o graduale da parte della ‘offer side’. Quasi sempre in questo nuovo paradigma che stiamo vivendo, ritenere che una domanda non è ancora sufficientemente pronta ad un nuovo prodotto/servizio che sta emergendo, soprattutto a livello globale, come lo è la richiesta di servizi fintech, significa semplicemente avere perso o comunque faticare moltissimo poi per recuperare. Diciamocelo anche chiaramente. Le asimmetrie, specialmente informative, che hanno fatto la fortuna del sistema bancario fino agli inizi del nuovo secolo hanno fatto il loro tempo e sperare che si ripresentino in questa occasione mi sembra quantomeno illusorio. Però, come accennato già in precedenza, non voglio e non credo (anche per esperienza diretta) che tutto il sistema bancario non sia cosciente di questo, anche se esistono ancora delle sacche di miopia. Proviamo a riprendere la classificazione adottata da Banca d’Italia per la sua ricerca:

  • Banche Significant (SI)
  • Banche Less Significant (LSI)
  • Altri intermediari

Riporto un estratto dello studio citato dove è rappresentato il coinvolgimento delle iniziative fintech riportate dagli operatori. La netta distinzione che si vede tra banche SI e LSI per il fintech non è molto diversa da quella che si è vista analizzando qualsiasi altro aspetto nella programmazione e nella vita aziendale tra banche grandi e banche medio/piccole negli ultimi 20 anni; con l’unica differenza che qui siamo forse all’ultima fermata….

Circa due terzi delle banche SI ha avviato o sta per avviare progetti di investimento fintech nel breve termine; per quanto concerne le banche LSI, più di un quarto (27%) non hanno avviato nessuna iniziativa (sic..), solo un quarto ha avviato iniziative o le sta per avviare nel breve, mentre quasi la metà (47%) prevede di avviarle nel medio termine, sperando (aggiungo io) che non si tratti di ‘atti di fede’. Pertanto, nelle banche LSI io non ci vedo miopia, ma direi fatalismo. Si è consci che il mondo sta cambiando, ma non c’è sufficiente programmazione, mezzi finanziari e forse capitale umano per alimentare il cambiamento. Ho come l’impressione che dovendo ‘sopravvivere redditualmente’ nell’attuale contesto, l’approccio strategico viene sacrificato o assorbito, scavalcato, superato da quello tattico e cioè cercare di tirare avanti, fare miglioramenti incrementali e poi sperare che ‘il vento torni a soffiare nella giusta direzione’. Ma mi domando banalmente, cosa si aspetta!!! A mio parere ci vuole un po’ di coraggio e di presa di posizione da parte di tutti. Da parte dei board e management di queste banche, ma anche da parte dei regulators e controllori. Negli altri settori, nel momento in cui un player approccia il suo mercato di riferimento con un modello di business obsoleto e non vuole o può aggiornarlo è messo alla porta, punto e basta, con ovvie esternalità negative, ma che possono essere confinate. Nel momento in cui questo succede ad una banca il benedetto rischio di contagio renderebbe tutto più difficile da gestire. Pertanto, mi chiedo semplicemente come i regulators intendono gestire il tutto visto l’approccio ancora troppo passivo da parte di una gran parte del sistema bancario italiano. Beninteso che si tratta di una fetta importante del sistema italiano in termini di ‘numero di banche’, ma non altrettanto di masse gestite ed intermediate vista la concentrazione del sistema bancario nazionale. Però un altro herd effect ed i costi di sistema di una tale inefficienza non ce li potremmo più permettere.

In fin dei conti il problema di fondo è che investire in fintech vuol dire soprattutto investire in intangibles. Di certo non una novità visto che questo nuovo paradigma economico si fonda proprio su un ‘capitalism without capital’, ma questi investimenti in intangibles richiedono un approccio valutativo completamente diverso rispetto al passato. Citando proprio Haskel e Westlake, gli attivi immateriali sono caratterizzati dal fatto che sono ‘sunk cost’, generano effetti di ‘spillover’, sono soggetti a forti fattori di scala e possono generarae potenzialmente sinergie. Si tratta di quattro elementi sui quali occorre riflettere per capire come le banche, soprattutto quelle medio/piccole possono beneficiarne o essere succubi.

Qualunque studente in management accounting prima o poi si scontra con il concetto di sunk cost (costo sommerso), cioè un costo sostenuto, ma che non è recuperabile. Secondo me proprio questo è il fattore che principalmente può star dietro a quella conclusione di Banca d’Italia sul perché si investe poco in fintech. Difficilmente si riesce a rientrare da un investimento in intangibles una volta che si è sbagliato nell’investire o non si hanno prodotti risultati. Un camion acquistato e non più utilizzato può essere rivenduto e ricavarne qualcosa. Ma cosa ci facciamo di una piattaforma sbagliata o di un software non più utilizzabile? Allora nel caso delle banche italiane, soprattutto per quelle medio/piccole è forse così che si spiega il perché non si fanno grandi investimenti, o non si fanno per niente, in fintech. Almeno finchè la domanda non si ritiene che sia sufficiente. E’vero che lo scorso anno gli investimenti in fintech a livello globale hanno ralletnato la corsa per la prima volta. Ma questo fenomeno dell’hype cycle è oramai ben noto tra gli investitori istituzionali. E’successo anche con gli investimenti a cavallo degli anni 2000 con internet. Dopo il picco di investimenti autoalimentati dalle aspettattive di fine anni ’90 (quello che la società di consulenza Gartner chiama ‘Peak of inflated expectations’ nell’hype cycle) è seguita una fase di stagnazione di nuovi investimenti, quasi a smaltire l’eccesso precedente e generare una sorta di selezione darwiniana sulla offer-side (trough of disillusionment). Ma oggi tutte le banche hanno almeno l’internet banking… Pertanto, rinviare gli investimenti in fintech in questo momento lo ritengo un errore strategico colossale. Perché i quattro elementi che caratterizzano gli investimenti in intangibles, messi insieme, sono invece il vero vantaggio competitivo dei nuovi players che possono disintermediare gran parte del sistema bancario tradizionale. E parlo soprattutto delle community banks. Se oggi per una banca medio/piccola tradizionale ogni risorsa deve essere ottimizzata vista la bassa marginalità, soprattutto derivante dall’attività creditizia, ogni investimento sbagliato potrebbe essere quasi il colpo di grazia. Questo non è così per nuovi players snelli che invece, come ogni newco fondano il proprio business su nuovi investimenti, con la possibilità poi di beneficiare di effetti di spillover da chi è già presente o ha fatto da pioniere, ma soprattutto di forti economie di scala e di sinergie. Analizzando le attuali catene del valore delle banche tradizionali, riguardanti i due filoni di business principali che le contraddistinguono, credito e consulenza agli investimenti, vedo poche economie di scala e soprattutto poche sinergie con i possibili nuovi investimenti in intangibles fintech. Purtroppo, devo anche dire che la maggiore resistenza alle economie di scala ed alla possibilità di fare sinergie è nel capitale umano che, sembra quasi paradossale, è diventato il vero sunk cost.

Tra l’altro, se poi si va ad analizzare dove finora si sono fatti investimenti fintech in Italia (di seguito riporto la tabella presente nello studio di banca d’Italia), si nota come le banche significant abbiano sostanzialmente investito principalmente in servizi automatizzati per il cliente (consulenza finanziaria automatizzata (robo-advisor), i portali per la comparazione di offerte di servizi finanziari o assicurativi, i servizi informativi sui conti del cliente, i servizi di Customer Relationship Management Automatizzati con soluzioni di intelligenza artificiale) e in tecnologie a supporto (comprendono strumenti quali Big Data, Intelligenza Artificiale, Cloud computing, Open API – Application Programming Interface e IOT –Internet of things). In sostanza, il primo passo per fare il minimo sindacale, ma ancora è lunga la strada affinchè si generino quegli effetti positivi sui processi del credito e della finanza, dove ci dovrebbe essere maggiore valore aggiunto.

In definitiva, un quadro ancora dove le aree scure prevalgono su quelle in chiaro. Però, tutto ciò mi porta a pensare che il fintech riuscirà in quello che leggi e moral suasion della vigilanza non sono riusciti a fare finora (o non hanno veramente voluto fare), cioè generare un doveroso consolidamento nel settore bancario italiano insieme ad un recupero sia di efficienza che di valore aggiunto generato.